È reato presentare la dichiarazione dei redditi spacciandosi per commercialista.

Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 16366 del 15 aprile 2019, ha respinto il ricorso di una donna che aveva presentato la dichiarazione dei redditi, in virtù di un accordo con il Caf poi decaduto e in relazione alle sue competenze e conoscenze fiscali ma senza essere iscritta all’albo unico.

In un passaggio chiave di questa articolata decisione gli Ermellini chiariscono che la specifica inclusione delle attività di tenuta e redazione dei libri contabili, fiscali e del lavoro, e di elaborazione e predisposizione delle dichiarazioni tributarie e cura degli ulteriori adempimenti tributari, nell’elenco di quelle riconosciute di competenza tecnica degli iscritti alla sezione B consente però ora senz’altro di ritenere, alla stregua delle conclusioni sopra assunte, che lo svolgimento di esse, se effettuato da soggetto non abilitato con modalità tali da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse dallo stesso provenienti, le apparenze dell’attività professionale svolta da esperto contabile regolarmente abilitato, è punibile a norma dell’art. 348 cod. pen.

La consulente è stata condannata  tanto  per il reato di esercizio abusivo della professione quanto per quello di truffa

Per la Suprema corte, che ha confermato e reso definitiva la sentenza di condanna, bene ha fatto la Corte d’appello di Milano a rilevare l’illiceità della condotta della signora che aveva svolto attività di consulenza tributaria, redatto dichiarazioni fiscali ed effettuato i relativi pagamenti, occupandosi della ricezione delle cartelle esattoriali.

Ma non è ancora tutto. La consulente è stata condannata tanto per il reato di esercizio abusivo della professione tanto per quello di truffa in quanto aveva ingannato i clienti, ricavandone ingiustamente un profitto, sulla possibilità per lei di redigere e presentare la dichiarazione dei redditi.

Sul punto è stato del tutto inutile il ricorso con il quale la difesa ha tentato di smontare l’impianto accusatorio, sostenendo la mancanza della prova dei raggiri e quella del danno. Per gli Ermellini, infatti, il reato di truffa contrattuale si configura per l’ingiusto profitto ricavato dalla consulente. Ciò non è infatti escluso dalla circostanza per cui il raggirato ha corrisposto un prezzo per un servizio realmente fornito.

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